Basta col tafazzismo italiano sulla Libia

Mentre una compagnia libica, la Libyan Wings, si offre di mettere un volo diretto da Malpensa e Fiumicino perché le nostre imprese stanno tornando a lavorare in Libia (un consorzio italiano ha preso l’appalto per aeroporto di Tripoli), il governo di Roma non muove un dito per togliere il divieto di sorvolo del nostro spazio aereo che fu imposto ai velivoli libici nel 2011.

Ma oggi le bombe non ci sono più.

Nel frattempo Macron ha invitato a Parigi Haftar e Serraj senza la presenza italiana. Per cui è facile prevedere che i voli con Tripoli e Bengasi li aprirà Air France e noi ci terremo lo spazio aereo chiuso e i flussi.

Così gli imprenditori italiani e i connazionali diretti in Libia (ormai cominciano ad essere molti) pagheranno il biglietto ai francesi.

Il pasticcio perfetto.

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Il progetto armonico e di visione che manca in Libia

Che Libia avremo nel 2020? Gli errori politici sul binomio mai realmente armonizzato, Serraj-Haftar, in Libia stanno producendo destabilizzazione e scontri a fuoco, con innocenti ancora a pagare il dazio più caro. Ci sono intere famiglie tra i feriti civili dopo gli scontri scoppiati nel quartiere Abu Salim, a Tripoli. Si combatte e non si scorge un barlume di speranza in questa terra martoriata dal caos del post Gheddafi, dove tutte le ricette applicate non sono risultate corrette, né tantomeno caratterizzate da una visione.

Alla Libia manca un progetto armonico e di prospettiva, anche a causa di attori protagonisti che non possono dirsi soddisfacenti, per nomi avanzati e idee applicate. Troppo tempo si è perso con l’ex commissario Onu Bernardino Leon, di cui nessuno (davvero?) aveva intuito le mire carrieristiche emiratine. Tra l’altro i critici di Leon, negli ultimi tre anni, sono stati troppo facilmente relegati a scomode Cassandre, salvo poi scoprire che avevano ragione in toto.

L’avvento poi del tedesco Martin Kobler, che è stato preferito ad un’eventuale candidatura italiana che era nello stato delle cose, nonostante le resistenze del blocco centroeuropeo, ha portato in dote il nome di Serraj, che però non è riuscito a intrecciarsi con chi, gioco forza, andrà coinvolto seriamente in un discorso relativo alla stabilizzazione istituzionale del paese. Il generale Haftar è un interlocutore regionale preciso di cui non si può fare a meno.

E’chiaro che senza una decisa progettazione del caso Libia e con le incertezze della nuova amministrazione americana che sul Mediterraneo ha già fatto trapelare un netto disimpegno, se ciò che resta dell’Ue non metterà in campo un intervento netto e credibile, sorgerà solo altro caos e altra morte. Con i civili a pagare (ancora) pegno per le deficienze strutturali della politica.

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Non è mai troppo tardi per parlarsi (e risolvere il caso Libia)

Con dieci (o forse più) mesi di ritardo oggi si sono finalmente incontrati (anche se ufficiosamente lo avevano già fatto) il generale Khalifa Haftar e il premier libico Fayez al-Serraj al Cairo. E’ora che l’Ue e i partner geopolitici comprendano come, senza una costruttiva interlocuzione con Tobruk, sarà difficile stimolare una vera normalizzazione istituzionale della Libia.

Fino ad oggi è stato perso molto tempo circa una possibile analisi e un obbligatorio confronto tra chi è stato designato dall’Onu e chi ha il controllo di una parte significativa del territorio. Ci si rende conto (solo oggi?) che il procedere con impulsi esterni e senza la fisiologica dialettica con tribù e regioni locali sarà foriera di ulteriori elementi destabilizzanti, gli stessi che non hanno consentito nell’era del post-Gheddafi la normalizzazione istituzionale del Paese. La fase di acuta instabilità, oltre che essere boccone succulento per il terrorismo legato all’Isis, non consente ad esempio alle aziende italiane di tornare protagoniste in Libia, nonostante i 5 miliardi di crediti vantati siano certificati.

L’obiettivo di una Unione Europea responsabile e utile alla causa mediterranea deve essere quello di armonizzare le istanze dei territori libici, e non chiudersi a riccio su posizioni ortodosse che non portano a sviluppi. L‘effetto Siria, con la balcanizzazione di porzioni di territorio va evitato, anche se tutti sanno che francesi e inglesi hanno da tempo sezionato pezzi di Libia con propri mezzi, civili e militari.

L’auspicio è che anche l‘Italia, oltre alla firma del trattato sui migranti, pigi sull’acceleratore affinché le proprie aziende che da anni attendono il giusto riconoscimento, non siano lasciate nuovamente sole, e possano finalmente tornare a fare ciò che sanno: esportare il know how italiano e quella capacità umana che ci è invidiata in tutto il mondo.

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Nomina di Al Nakua come ramoscello di ulivo verso Haftar?

La nomina del colonnello Najmi Ramadan Khair Al Nakua a comandante della guardia presidenziale da parte del presidente del Consiglio presidenziale libico, Fayez al Sarraj, può essere un ramoscello di ulivo inviato al Generale Haftar?

Al Nakua, che avrà come vice i colonnelli Mohamed Abu Bakr Laqri e Ibrahm Ahmed Abdullah Bilad, è nato a Garian ed il suo nome è stato proposto dal Colonnello Salem Juha, una sorta di ambasciatore incaricato di mediare tra le forze che sostengono il generale Kahlifa Haftar e i misuratini. Il fatto che sia anche un personaggio gradito ad Abu Dhabi, dove è stato impegnato come addetto alla Difesa, rappresenta un altro passaggio che contribuisce a comporre (e anche a chiudere?) questo intricato cerchio.

Nata per volontà governativa lo scorso maggio, la guardia presidenziale rappresenta una sorta di corpo scelto, incaricato di sorvegliare e proteggere il Consiglio presidenziale e tutte le altre istituzioni sovrane, come ad esempio la Banca Centrale della Libia. Ma nei primi mesi fortissime sono state le controversie circa la sua composizione, con da un lato le fazioni in auge a Misurata e dall’altro la componente internazionale legata all’uomo Onu Martin Kobler, che da tempo ormai ha puntato tutto su Al-Serraj.

Il fatto che un nome, anche se non proprio condiviso, ma praticamente a metà strada tra le due fazioni possa utilizzare quello scranno per alleviare dissapori e scontri all’interno del paese, è un’opzione al momento sul tavolo. Nel caso si concretizzasse sarebbe da salutare senza dubbio in primis con ottimismo e poi con realismo. Il processo che dovrebbe condurre alla normalizzazione istituzionale della Libia è ancora lungo, farraginoso e frastagliato.

Ma da oggi uno strumento significativo come la guardia presidenziale è presente nello scacchiere del paese con una testa di ponte che non è un nome di rottura. E questa è una buona notizia.

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Che cosa augurare al nuovo ambasciatore italiano in Libia

Dialogo, raccordo e stretta collaborazione con le forze che lavorano alla normalizzazione istituzionale in Libia. Sono i tre auspici rivolti al neo ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, al lavoro per la prossima riapertura della nostra sede diplomatica.

Nel paese si sta di fatto aprendo una fase due dopo la premessa rappresentata dai 30 giorni di attacchi da parte di Usa e forze europee che è certamente imprescindibile, dal momento che in questo modo si gettano le basi per una possibile soluzione del caso libico, che passi da una normalizzazione istituzionale. Ma come sosteniamo ormai da tempo su queste colonne e alla luce del prestigioso seminario promosso da Rete Libia in Senato lo scorso 19 aprile (in cui, per la prima volta assieme, si sono confrontati i due rappresentanti di Tripoli e Tobruk a Roma con la regia della Camera di Commercio Italolibica) l’operazione militare avviata dagli Usa in Libia ha come primo effetto quello di legittimare il governo di Al-Serraj ma al contempo dovrebbe puntare a evitare errori del passato e soprattutto di comporre il medesimo (e deleterio) schema che sta andando in scena in Siria.

Un danno veder proiettate su suolo libico le frizioni internazionali di Stati e le derive legate alla geopolitica, mentre al primo posto va messo l’interesse locale con un occhio di riguardo ai nodi che concernono anche l’Italia: quello sul caso migranti e quello relativo ai crediti maturati dalle imprese italiane.

E’la ragione per cui il contributo italiano in virtù della nuova presenza in loco potrebbe essere strategico non solo al fine di abbozzare una forma di dialogo con Tobruk e Bengasi, ma anche in merito ai crediti maturati dalle imprese italiane in Libia e che, nonostante il Trattato di amicizia italolibico del 2008, non sono stati restituiti alle aziende del nostro Paese. A seguito di quel passaggio burocratico il Governo italiano avrebbe dovuto accantonare 225 milioni di euro all’anno e invece ancora oggi quelle imprese attendono ancora il dovuto. L’augurio è che la riapertura della nostra sede diplomatica possa rappresentare l’occasione anche per dare risposte su questa vicenda.